venerdì 24 aprile 2009

ALL’INIZIO, SI PUO’ DIRE, C’ERA SOLO LA CURIOSITA’. POI VENNE LA SCIENZA


La curiosità è un intenso desiderio di sapere. Non tutti gli elementi presenti in natura sono curiosi. Alle pietre non interessa sapere come sia possibile costruire un motore più efficiente, che consumi quindi meno carburante. E una pietra, una volta colpita da una ruota di un’automobile, finirà chissà dove, senza poter fare assolutamente nulla. Nemmeno gli organismi viventi sono tutti curiosi, per lo meno non nel senso abituale che noi attribuiamo a tale termine. Un albero, ad esempio, non può muoversi, non può esplorare l’ambiente oltre la zona circoscritta in cui si trova, non può inventare un sistema per proteggersi dai fulmini, dai funghi o dalle motoseghe.

La curiosità è una caratteristica degli organismi viventi che possono muoversi, che hanno quindi superato lo stadio di immobilità. Essi non devono più aspettare che il cibo li raggiunga: sono loro ad andare alla ricerca del cibo. E quando il cibo scarseggia e sono in tanti a desiderarlo, occorre inventare qualcosa per poterne ottenere a sufficienza. “Assai presto la curiosità per l’ambiente fu imposta come condizione per la sopravvivenza” scrive Isaac Asimov – non solo scrittore di fantascienza, ma anche biologo e docente di biochimica – nel suo “Il libro di fisica” (Mondadori 1986, edizione originale “Asimov’s New Guide to Science, 1984).

Via via che gli organismi divennero più complessi, svilupparono un sistema nervoso in grado di ricevere, immagazzinare ed interpretare una quantità sempre maggiore di informazioni provenienti dall’ambiente esterno. Di pari passo si sviluppò il cervello e crebbe l’impulso ad esplorare: una volta che l’organismo riuscì a soddisfare i suoi bisogni fondamentali, venne colpito dalla noia e cercò quindi di utilizzare il cervello oltre il livello minimo di sopravvivenza, al fine di evitare le spiacevoli conseguenze della noia stessa.

Il desiderio di sapere quindi viene innanzitutto dirottato verso alcuni bisogni primari: “come seminare nel modo migliore e ottenere i più abbondanti raccolti, come fabbricare nel modo migliore archi e frecce, come meglio tessere abiti” (testuali parole di Asimov). Il passo successivo, per occupare le immense capacità di elaborazione del cervello, è dedicarsi alla ricerca della conoscenza pura. Non si tratta più di studiare qualcosa a fini applicativi, ma di studiare per il solo gusto di studiare, perché solo in questo modo il cervello viene efficacemente impegnato.

L’uomo comincia quindi a porsi domande, le cui risposte non hanno un’immediata ripercussione sulla sua vita. È naturale cercare le risposte a partire da ciò che già si conosce. È così che in Grecia nasce e si sviluppa la filosofia naturale: i filosofi greci sono persone che si dedicano a scoprire le leggi di natura. Dopo che i miti non vennero più accettati come spiegazione del mondo, se l’universo non era più controllato da divinità arbitrarie e imprevedibili, allora – come giustamente afferma Asimov – l’universo poteva essere immaginato come “una macchina governata da leggi inflessibili”. Dunque, occorreva scoprire tali leggi. Ma in che modo era opportuno procedere?

Prima di tutto è necessario osservare un determinato fenomeno naturale, poi si cerca di dare a queste osservazioni un ordinamento e infine si cerca di dedurre dall’ordinamento un principio che riassuma le osservazioni stesse. A tal proposito, una tecnica molto utilizzata dai greci fu l’astrazione e la generalizzazione. Essi si sforzarono di non cercare di risolvere un singolo problema, ma di astrarre da esso per immaginare quali caratteristiche fondamentali avessero i problemi simili a quello da risolvere. Una volta individuata un’ampia classe di problemi di cui vengono considerate solo le proprietà più importanti, i greci cercarono soluzioni il più possibile generali.

L’astrazione e la generalizzazione vennero applicate (con successo) inizialmente ai problemi di geometria. Ma poi i greci videro che il metodo funzionava e si innamorarono della tecnica deduttiva, cioè dell’ “elaborazione di un corpo di conoscenze come conseguenza invitabile di un insieme di assiomi” (le frasi poste fra virgolette in questo articolo sono tutte di Asimov e sono tratte dal suo testo citato in principio).

Come si sa, a volte l’amore gioca brutti scherzi, e i greci credettero a tal punto nel metodo deduttivo da applicarlo anche a sproposito. Addirittura giunsero a considerare la deduzione “come l’unico mezzo rispettabile per raggiungere la conoscenza”. Inoltre diedero un’eccessiva importanza agli assiomi da cui si partiva per elaborare la conoscenza: ritennero che tali assiomi fossero verità assolute. Di conseguenza pensarono che anche altri rami della conoscenza (al di là della geometria) “andassero costruiti a partire da analoghe verità assolute”.

Per rimediare agli errori metodologici dei greci, dei quali via via alcuni pensatori cominciavano ad accorgersi, l’umanità ha dovuto attendere la fine del secolo XVI, cioè la rivoluzione galileiana. È stato proprio Galileo Galilei a fondare il metodo scientifico e a stabilire che innanzitutto occorre sperimentare e poi bisogna indurre dagli esperimenti e non dedurre da verità assolute. Il mezzo principale per raggiungere la conoscenza diventa l’induzione. Si può indurre dagli esperimenti e dalle osservazioni e in questo modo si ottengono generalizzazioni, che però non sono né verità assolute, né verità ultime. Durano finché non viene provato che sono false.

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